venerdì 15 novembre 2019

"Mai troppo umano": è nella relazione che il dolore si apre alla speranza

Il dolore è oggi una parola Cenerentola che fugge dal dibattito pubblico, eppure le domande di senso si fanno sempre più insistenti: perché l’uomo deve soffrire? Perché esiste il dolore innocente? Cosa possiamo sperare in questa vita? Davanti al binomio “dolore e speranza” si sono posti Alfonso Pedatzur Arbib, rabbino capo della comunità ebraica di Milano, Rosanna Virgili, teologa, e Silvana Borutti, filosofa, nell’aula magna dell’ateneo pavese che è rimasta colma di persone fino a mezzanotte per la prima conferenza di “Mai troppo umano”. Il dibattito è stato moderato da Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera.  

La prima serata di "Mai troppo umano" con S. Borutti, C. Sanguineti, L. Fontana, A. Arbib e R. Virgili

«Il dolore – ha introdotto il vescovo di Pavia Corrado Sanguineti – è un fattore scandaloso, che suscita domande e contestazioni anche contro Dio. Da qui vuole partire il comitato “Mai troppo umano”, per coinvolgere tutti gli uomini amanti del vero, credenti e non, per un sano confronto tra le visioni del mondo. In un’intervista al Corriere Umberto Galimberti pensando ai giovani ha parlato di angoscia del nichilismo, di assenza di futuro. Eppure in questa angoscia permane una promessa di bene, permane la domanda: cosa possiamo sperare?». Concentrarsi sulla propria sofferenza è uno dei problemi più grandi della sofferenza: «Non vedere oltre la propria sofferenza e concentrarsi solo sul proprio dolore è tradire se stessi – ha spiegato il rabbino Alfonso Arbib –. Pensiamo al capitolo 28 del libro di Giobbe: qui, dopo il racconto del mondo che è franato addosso a quest’uomo giusto, a quest’uomo di fede, c’è la perdita totale della speranza. L’uomo è consapevole della sofferenza, ed è consapevole che non troverà mai risposte alla sofferenza. L’intelligenza e la sapienza umana si fermano davanti al mistero. Eppure improvvisamente Dio interviene, ed offre a Giobbe un quadro più ampio, gli consente di ridimensionare il suo dolore. E, soprattutto, dopo notti di dolore e domande, Dio si fa sentire. Uno dei motivi della speranza è essere in relazione, perché una malattia condivisa è una sofferenza che può aprirsi alla speranza»

L'articolo di presentazione del nuovo comitato apparso sulla Provincia Pavese a firma di Giacomo Bertoni

Si passa dal dolore alla speranza quando qualcuno si china verso il sofferente: «Il dolore è più forte degli eserciti e della spada perché diventa un grido – ha detto Rosanna Virgili –, come il grido di Gesù sulla croce che querela Dio. La domanda sul dolore è sacra, il cristiano non può scandalizzarsi se l’umano non sopporta il dolore, deve invece farsi partecipe del mistero. Agar nel deserto grida, anche se sa che forse nessuno potrà sentirla, lei grida perché non vuole vedere suo figlio morire. La Terra grida di fronte all’assassinio di Abele. La potenza della debolezza di un grido del deserto ottiene la risposta anche dal Cielo, infatti un angelo scende e chiede ad Agar “perché gridi?». Il dolore non può essere disgiunto dalla relazione, in modo particolare dalla relazione di cura: «Il grido istintuale diventa parola pubblica, perché il dolore umano desidera essere comunicato – ha spiegato Silvana Borutti –. Il grido di Agar el deserto diventa voce significante, come noi diventiamo umani nel momento in cui rispondiamo all’appello etico dell’altro. Wittgenstein parla della cura come della risposta all’appello di un altro essere umano che soffre, nella cura c’è memoria del passato e progettazione del futuro, come nell’alleanza terapeutica medico-paziente e nel rapporto madre-figlio. Non si può attribuire senso al passato senza speranza nel futuro»

Anche dall'asfalto può nascere un fiore, foto di Denis Geier da Pixabay

Tante le domande del pubblico, a prendere la parola anche Stefano Perlini, responsabile del Pronto Soccorso del San Matteo: «Pochi giorni fa la città è stata scossa dalla notizia di un giovane studente in fin di vita per aver tentato il suicidio, cosa possiamo fare noi come docenti e medici, come persone, di fronte a questo dolore interiore?». Alla «domanda troppo grande» ha risposto la filosofa Silvana Borutti: «Gesù sulla croce grida “Padre, perché mi hai abbandonato?”, ma c’è anche la versione pagana di questo grido, è quella di Edipo che grida “Non fossi mai nato”. Noi come docenti, come adulti, come umani, abbiamo il compito di fissare lo sguardo dei nostri studenti e di leggere nei loro occhi il “Non fossi mai nato” di Edipo. Il vescovo e Galimberti hanno parlato di nichilismo: il nichilismo non è solo assenza della speranza, è assenza delle ragioni della speranza. Leggere la sofferenza dell’altro apre alla speranza»

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