domenica 19 gennaio 2020

Milva: frammenti di una storia da riscoprire

«Io non voglio parlare di carriera ma di lavoro: il mio è un lavoro che va avanti, è uno studio che va approfondito, come in tutte le attività. Credo che un grande professore, un medico, non si fermi dopo aver operato due o tre volte, va avanti e cerca di fare sempre meglio. E così è il mio lavoro. Sono molto rigida con me stessa, non mi accontento delle cose appena acquisite, voglio fare meglio. E si può sempre fare meglio». 

Così si racconta Milva nella grande hall di un hotel a Salonicco, ospite di “Storie con sette note”, un programma della televisione greca. È l’ottobre del 1997, e la Rossa è in Grecia per presentare il suo recital, “Milva canta un nuovo Brecht”, con la regia di Giorgio Strehler. 

Milva canta un medley di successi ospite di una tv tedesca

«Vorrei subito puntualizzare una cosa: io non sono una diva. Io desidero essere, io voglio essere un’artista, ma non una diva». Occhiali scuri, un filo di rossetto, le mani che compiono movimenti teatralmente misurati, la chioma rossa adagiata su una spalla, in favore di camera: Milva si presenta così, giocando con una maschera cristallina. Presenta poi Brecht, racconta un’agenda fitta fino all’anno successivo, porta con orgoglio il nome del Piccolo Teatro sui palcoscenici più prestigiosi del mondo. 

Ed eccolo il palcoscenico, in un filmato rubato dalle prove de “La ballata di Hanna Cash”, sul quale la Rossa si muove sicura. La voce si diffonde nel teatro raggiungendo ogni fila, riempiendo ogni angolo, senza microfoni. I tacchi sulle assi, le mani che battono sulle ginocchia, quel vibrato unico: la magia del teatro è servita. 

Milva sulla copertina di un suo album

«All’inizio credevo servisse solo la voce – continua la Pantera di Goro –, e invece non basta. Io non credo di essere una grande attrice, ma sono, credo, attraverso la scuola di Strehler, dopo tanti anni, un’ottima interprete. Se poi sarò una straordinaria interprete me lo diranno i critici. Finora me l’hanno sempre detto. Oggi è difficile che si faccia uno spettacolo brechtiano senza che io venga interpellata, in qualsiasi parte del mondo». 

Senza falsa modestia, senza ipocrisie, i frutti di un duro lavoro costellato di incontri preziosi (in Grecia d’obbligo ricordare Theodorakis, Vangelis e Mikroutsikos), arricchenti, per l’artista e per il pubblico, perché è questo che fa Milva: un cambio di prospettiva rispetto all’idea politicamente corretta che un artista sia tale perché racconta i suoi dolori particolari. «Ogni sera è un debutto, anche se stai un mese nello stesso teatro – spiega la Rossa –, cambia il pubblico e cambiano gli umori, e allora diventa sempre una cosa nuova, pericolosa, un esame da sostenere». 


L’artista precorre i tempi, anticipa tempeste e primavere future che lo sguardo comune non è in grado di vedere ancora, l’artista può partire dal particolare ma tende sempre all’universale, e così accende la vita spirituale dello spettatore, dell’ascoltatore, del lettore. Il potere catartico dell’arte non si attiva senza questa tensione, questa ricerca, senza questo tenere lo sguardo, il cuore e la mente oltre il quotidiano. 

«Se non abbiamo più speranza per il futuro abbiamo perduto una partita che è poi la nostra vita – aggiunge Milva –, ma le speranze diminuiscono invece di aumentare. Brecht è ancora attuale? Mai è stato attuale come oggi. Brecht aveva previsto un mondo terrificante, pensiamo a quanti Paesi sono in guerra. Spero che i giovani di oggi riescano ad essere più seri di quanto non lo sono stati i loro padri». 

Il disco Milva canta Merini al Castello Visconteo di Pavia

La musica salverà il mondo? «No, una canzone non può cambiare le cose. C’è oggi un grande desiderio di religiosità, gli anni ’60 e ’70 sono stati anni di grande lotta. Mi sembra invece che i giovani di oggi cerchino qualcosa di diverso, spero continuino. Non trovo nella canzone la speranza, ma nell’atteggiamento dei giovani. Il mondo non va attraverso la canzone». La forza, la determinazione, la dolcezza, come il racconto di quell’anello con una pietra grande ma non preziosa, donato da un ammiratore e ora portato con orgoglio al dito. 

E poi la storia sulla nascita delle sette note nell’abbazia di Pomposa, regalata agli ascoltatori in chiusura. C’è tanto di Milva in questa lunga intervista, ci sono tante pagine di una storia che è anche nostra. Orgoglio, impegno, musica, talento, poesia. Eco mitteleuropeo di una storia iniziata in Italia, a Goro. Una storia forse finita, con il ritiro dalle scene nel 2011, di certo non passata. “Tu come mai non senti nostalgia?” 

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