sabato 4 gennaio 2020

Andy Rocchelli e il giornalismo

Il giornalismo come missione, il giornalismo come scoperta, il giornalismo come sospensione del giudizio di fronte a una realtà complessa, spesso più misteriosa delle proprie convinzioni, e dunque tutta da illuminare. Insomma, il giornalismo.

All’inizio del 2018 e per tutto il 2019 ho avuto la fortuna di essere incaricato da “Ossigeno per l’Informazione” di seguire il processo per l’omicidio di Andy Rocchelli, fotoreporter ucciso in Ucraina il 24 maggio del 2014, mentre documentava le condizioni dei civili coinvolti nella guerra. Oltre un anno di udienze, perizie, testimonianze, immagini, video. Un mare di informazioni da ascoltare, comprendere e poi riportare ai lettori.

Intervista ai genitori di Andy Rocchelli alla Provincia Pavese

Comprendere: forse è stata questa la sfida più ardua. Seguire udienze anche di 8 ore, in piedi, prendendo appunti sulle spalle di un collega, in settanta dentro un’aula con capienza massima di 40 posti. Comprendere il linguaggio tecnico, comprendere il racconto dei testimoni, comprendere le domande degli avvocati, con le loro strategie, comprendere le voci degli amici di Andy e le voci degli amici dell’imputato, comprendere le scelte di altri colleghi nel raccontare il processo, comprendere il dolore che vive dietro al processo, nelle persone coinvolte.

Non è raro sentirsi sopraffatti dopo otto ore così, con la consapevolezza di avere davanti solo un paio d’ore per analizzare e condensare tutto questo in 2000 battute. È come dover rinchiudere un mare in tempesta in una bottiglietta da mezzo litro.

Articolo sul processo per l'omicidio di Andy parla l'imputato Markiv

Occorre calmare prima la bufera, riavvolgendo il nastro con tutta la lucidità che si possiede, prelevare i campioni d’acqua che contengono le notizie più importanti, e poi filtrarli per eliminare tutte le convinzioni personali, i pregiudizi, per distinguere ciò che è colore, che restituisce cioè al lettore una parte di tutte le emozioni registrate durante l’udienza, e ciò che è opinione mascherata da cronaca.

Uno sforzo che siamo chiamati a compiere ogni giorno, anche quando dobbiamo raccontare un cedimento nell’asfalto o un evento culturale. Andy faceva questo, ed era così convinto che questa fosse la strada giusta che, quando ha voluto raccontare la guerra nel Donbass, è andato di persona a fotografare e intervistare i civili. È andato proprio dove si combatteva, per far sapere a noi cosa stesse succedendo. 

La sentenza del processo per la morte di Andy Rocchelli

Oggi, quando cammino per le strade di Pavia e vedo i jersey antiterrorismo dipinti con le immagini dedicate ad Andy, sono felice di aver potuto raccontare la sua storia, e di continuare a farlo. Perché, al di là di come si è concluso il primo grado di giudizio e di come si concluderanno i prossimi, Andy rimane un esempio di giornalismo vissuto nella ricerca, nella curiosità, nel desiderio di imparare e di restituire al lettore la verità trovata. Un giornalismo che nello scontro fra proprie convinzioni e realtà fa prevalere la realtà. Magari commentandola, magari criticandola, ma dando al lettore la possibilità di sapere come stanno le cose.

Un esempio da ricordare, di fronte a una crisi del settore che può essere un invito a tornare al giornalismo di strada, che mette in discussione il giornalista e il lettore, lontano dai salotti, dalle interviste comode, dalle risposte prevedibili, magari false ma rassicuranti. 

Nasce l'associazione per ricordare il fotoreporter Andy Rocchelli

Un esempio che rimane nella memoria, come rimangono nella memoria i genitori e i famigliari di Andy, che hanno affrontato le udienze con dignità silenziosa, anche di fronte alle immagini dell’autopsia, anche durante le ricostruzioni dei periti della difesa, anche quando il rumore degli spari ha invaso una, due, dieci volte l’aula del tribunale. Una battaglia dolorosa per cercare la verità sulla morte di Andy e per ricordare che senza giornalismo non c’è democrazia

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