«L’indomani ero partita per il Vietnam. C’era la guerra
in Vietnam e se uno faceva il giornalista finiva prima o poi per andarci.
Perché ce lo mandavano, o perché lo chiedeva. Io l’avevo chiesto. Per dare a me
stessa la risposta che non sapevo dare a Elisabetta, la vita cos’è, per
ricercare i giorni in cui avevo troppo presto imparato che i morti non
rinascono a primavera».
È il 1968. A scrivere, da una camera dell’ultimo hotel
ancora in piedi a Saigon, in Vietnam, è Oriana Fallaci. I suoi articoli di inviata,
pubblicati sull’Europeo, arrivano in un’Italia scossa dalla contestazione e
sono una pioggia di parole che, invece di placare i dibattiti, ne accende di
nuovi. Cos’è che le rende capaci di scardinare le nostre rassicuranti certezze?
Cos’è che ce le fa sembrare fastidiose, dolorose, difficili?
In un’intervista
del 1991 a TG1 Sette, mentre dalla Guerra del Golfo lamenta gli ostacoli che
gli Stati coinvolti pongono ai giornalisti, Oriana spiega: «Forse ci sarebbe da
vedere lo sbarco, ma non ci prenderanno. Probabilmente, se riusciremo a entrare
nel Kuwait, ci entreremo quando avranno fatto pulizia. Nel Vietnam abbiamo
raccontato troppo i morti, li abbiamo fatti vedere troppo, con le parole e con
le immagini. E loro non vogliono che si vedano i morti».
Per chi sceglie di
fare il giornalista il confronto con queste parole è in realtà uno scontro. Uno
scontro quotidiano con un uragano di parole e di pressioni. Dalle storie più
semplici da comprendere e da raccontare, i residenti di un quartiere che
chiedono una corsa aggiuntiva all’autobus, alle storie più delicate, come le
decine di lastre di amianto abbandonate, ancora oggi, all’ex area Necchi.
Ricordo il primo incontro con quella che sarebbe diventata poi la mia fonte
principale sul tema, ricordo il plico di fogli che mi ha allungato sul tavolo,
un vero e proprio dossier fatto di analisi, resoconti, dati e fotografie,
ricordo le serate passate a studiare le carte per verificarne la veridicità.
Ogni parola mi parlava, non solo scientificamente, non solo razionalmente, ma
anche emotivamente. I numeri sull’inquinamento della falda acquifera non erano
e non sono solo numeri, i numeri dei poliziotti che lavoravano lì a pochi metri
e che sono morti per tumore negli ultimi anni non sono numeri.
Quando iniziano
le interviste arriva uno tsunami di parole: le parole di paura di chi lavora
lì, le parole di dolore di chi ha perso un caro e non sa trovare pace, le
parole di allarme di alcuni esperti, le parole rassicuranti di altri esperti,
le parole fredde della burocrazia e i tanti, troppi silenzi. Ma quando inizi a
scrivere l’articolo le difficoltà non fanno un passo indietro. Perché il
giornalista inizia a essere tirato per la giacchetta, a volte in realtà
spintonato senza troppi riguardi: l’editore vuole un indirizzo, il caposervizio
vuole un titolo, la fonte vuole una notizia, gli intervistati che hanno parlato
vogliono spazio, gli intervistati che hanno taciuto vogliono poco rumore. E
allora, quali parole usare?