Supermercato, coda banco gastronomia, una signora: «Il mio collega è a letto con 39° di febbre e palpitazioni dopo la prima dose del vaccino AstraZeneca, ha paura e non sa cosa fare per la seconda dose, ma appena apre bocca gli danno tutti del no vax».
Passeggiata nei pressi della propria abitazione, due vicini di casa discutono dai giardini confinanti: «Mi spieghi perché nessuno vuole parlare degli effetti collaterali? A me preoccupano di più quelli a medio e lungo termine, perché non hanno fatto in tempo a verificarli. Ho 61 anni, medio e lungo termine mi riguarda».
Edicola, coda in strada in attesa del proprio turno, una signora: «Faccio sempre più fatica a comprare il giornale, ormai lo prendo solo perché sennò mio papà brontola. Ma qualsiasi giornale leggi si parla solo di covid-19 e di vaccino, e sempre negli stessi termini: pericolo, paura, il vaccino ci salverà tutti. Non esiste più nient’altro».
Le domande crescono e le risposte latitano. Succede da settimane, da mesi, sui social si trovano veri e propri movimenti che quotidianamente cercano di mettere in dubbio la narrazione dominante sul covid-19. La paura per la pandemia c’è, c’è tutta. È dal 28 febbraio 2020 che la paura assilla le menti e i cuori, almeno nella ferita Lombardia.
Accanto alla paura, però, compaiono anche interrogativi nuovi: a che punto sono le cure domiciliari? Perché chiunque metta in dubbio il protocollo «tachipirina e vigilante attesa» viene definito un no vax? In America cresce il dibattito sul legame fra vaccini e aborti, perché in Italia nessuno ne parla? Perché chiedere di poter scegliere, anche per motivi etici, il vaccino che si desidera ricevere è considerato un crimine?
Perché il diritto di cronaca sui vaccini spesso scivola nella critica, con una narrazione entusiastica non supportata dai dati scientifici? Perché si invoca la scienza calpestandone poi il rigoroso metodo scientifico in favore della narrazione dominante? Perché si usano le etichette, “no vax” è sempre in tendenza, senza discriminare fra estremismi antiscientifici e legittime richieste di approfondimento?
Le storie di dubbi, paure e diffidenza si moltiplicano, basta uscire di casa per captarne qualcuna. Certo, sono tutte da verificare e approfondire, ma sono la cartina tornasole di un equilibrio sociale in crisi. Dopo oltre un anno di restrizioni e paure non si può lasciare ancora le persone in balia di solitudine e preoccupazione.
Un’amica, qualche giorno fa, spiegava con vacillante sicurezza che: «La statistica in questo caso è importante. Nella scienza e nella sperimentazione non c’è nulla di certo al 100%. Può sembrare blasfemo ma in un certo senso anche chi si affida alla scienza fa un atto di fede. Cioè, se tu ci credi, ci devi credere. È ovvio che non ci devi credere in modo cieco, però io non credo che la scienza ti possa dare risposte al 100%». Chissà cosa direbbe Galileo Galilei di questa nuova visione della scienza.
Una cosa è certa: escludere le paure dal dibattito pubblico non fa che renderle più minacciose. Un giornalismo intellettualmente onesto è chiamato a confrontarsi anche con questi sentimenti, perché ha tutti gli strumenti per discernere ciò che necessita di rassicurazione vera.
Tra paure irrazionali, propaganda opprimente e questioni etiche censurate, alla fine muore la verità. E con lei la libertà. Promemoria: la paura genera mostri. E sentirsi incompresi apre le gabbie dei mostri.
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(Image by Melanie Wasser from Unsplash)
La storia delle etichette viene da lontano. Da quando genitori preoccupati per i danni da vaccini pediatrici, in cerca di comprensione e dati, si sono scontrati con pediatri formati non per dare informazioni scientifiche ma per fare propaganda. E lì ti dicevano che dovevi fidarti perché lo dice la televisione. E se avevi un dubbio eri un novax... Un esperimento perfettamente riuscito, propedeutico a quanto sta accadendo.
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