«Anche i milanesi devono concederci che Pavia col bel tempo
è proprio una bella città, forse la più bella città di Lombardia. (Credo che ci
si possa stancare d’esser milanesi; mai d’esser pavesi). Quel cielo manzoniano,
così bello quando è bello, si distende particolarmente su di lei, che se lo
gode sollevandosi tutta — torri chiese case — in un rapimento tranquillo.
Il
bel tempo a Pavia è un accorto compromesso tra l’azzurro dei cieli longobardi e
l’oro dei cieli latini mediterranei: azzurro inverosimile al nord, verso le
Alpi; incandescenza scarlatta al sud, verso gli Appennini; come abbiamo spesso veduto
nei nostri viaggetti in su e in giù, quando eravamo più giovani. Di mezzo, sta
la pausa sospensiva della valle padana, nella quale la luce trova il suo
temperato splendore, la sua mitezza; in essa, Pavia acquista le trasparenze e
gli splendori delicati della sua storia, e i colori sepolti nei secoli delle
sue pietre tornano a gemere e a rivivere, dal rosso delle torri e del castello
al plenilunio di San Michele, la cui arenaria vanisce in una deliquescenza
subacquea.
Anche questo è da notare; il bel tempo illumina la città dall’alto
delle torri, che sono ancora parecchie e raccolte in arditissimi gruppi. Chi ha
mai misurato l’influenza della loro presenza sul sentimento e sulla vita dei
pavesi? Diritte, come una lezione continua di rettitudine. Mi piace pensare
che, giungendo dall’Adriatico, al mattino il sole le pennelleggia con gli ori
bizantini rapiti a Ravenna, e le accende. Sotto tali torce, la città si rivela
al naturale, nel suo colore che ha spesso toni di feccia di vino, ancora immune
dalla sconsacrazione cementizia; e la terracotta dell’abitazione contiene il
laghetto verde dell’orto come un tenero sfogo.
Altre città hanno l’impronta
d’un tecnicismo che riduce le case a squadra e a compasso, senza garbo né umana
espressione. In Pavia, le case sono ancora case, pensate, amate, ereditate:
tetti di tegoli, finestre con tende abbassate come dolci ciglia, gerani ai
davanzali, e gronde per le rondini. Pavia conserva l’impronta modellatrice del
pollice, d’una città fatta a mano. Non so se l’espressione figulina sia stata
usata per altre città; per Pavia è ancora vera. Si spiega il movimento delle
sue strade graziosamente storte nel frequente anelito d’una salita o d’una
discesa; il rifuggire dall’angolosità delle vie diritte, dallo spirito di
geometria.
E, proprio per quel suo ondulare tra l’orizzontale e il verticale,
non pare sia cosa ferma e nello stesso tempo danzante? Certo piena di rilievi e
di modulazioni armoniose. (…)». (“Pavia col bel tempo”, in Cesare Angelini,
“Viaggio in Pavia”, Fusi editore, Pavia, 1976)
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