venerdì 22 febbraio 2019

Pavia e gli splendori delicati della sua storia

«Anche i milanesi devono concederci che Pavia col bel tempo è proprio una bella città, forse la più bella città di Lombardia. (Credo che ci si possa stancare d’esser milanesi; mai d’esser pavesi). Quel cielo manzoniano, così bello quando è bello, si distende particolarmente su di lei, che se lo gode sollevandosi tutta — torri chiese case — in un rapimento tranquillo. 

Pavia vista dall'alto

Il bel tempo a Pavia è un accorto compromesso tra l’azzurro dei cieli longobardi e l’oro dei cieli latini mediterranei: azzurro inverosimile al nord, verso le Alpi; incandescenza scarlatta al sud, verso gli Appennini; come abbiamo spesso veduto nei nostri viaggetti in su e in giù, quando eravamo più giovani. Di mezzo, sta la pausa sospensiva della valle padana, nella quale la luce trova il suo temperato splendore, la sua mitezza; in essa, Pavia acquista le trasparenze e gli splendori delicati della sua storia, e i colori sepolti nei secoli delle sue pietre tornano a gemere e a rivivere, dal rosso delle torri e del castello al plenilunio di San Michele, la cui arenaria vanisce in una deliquescenza subacquea. 

Il duomo e i tetti di Pavia dall'alto

Anche questo è da notare; il bel tempo illumina la città dall’alto delle torri, che sono ancora parecchie e raccolte in arditissimi gruppi. Chi ha mai misurato l’influenza della loro presenza sul sentimento e sulla vita dei pavesi? Diritte, come una lezione continua di rettitudine. Mi piace pensare che, giungendo dall’Adriatico, al mattino il sole le pennelleggia con gli ori bizantini rapiti a Ravenna, e le accende. Sotto tali torce, la città si rivela al naturale, nel suo colore che ha spesso toni di feccia di vino, ancora immune dalla sconsacrazione cementizia; e la terracotta dell’abitazione contiene il laghetto verde dell’orto come un tenero sfogo. 

Pavia fotografata dall'alto

Altre città hanno l’impronta d’un tecnicismo che riduce le case a squadra e a compasso, senza garbo né umana espressione. In Pavia, le case sono ancora case, pensate, amate, ereditate: tetti di tegoli, finestre con tende abbassate come dolci ciglia, gerani ai davanzali, e gronde per le rondini. Pavia conserva l’impronta modellatrice del pollice, d’una città fatta a mano. Non so se l’espressione figulina sia stata usata per altre città; per Pavia è ancora vera. Si spiega il movimento delle sue strade graziosamente storte nel frequente anelito d’una salita o d’una discesa; il rifuggire dall’angolosità delle vie diritte, dallo spirito di geometria.

Foto di Pavia dall'alto

E, proprio per quel suo ondulare tra l’orizzontale e il verticale, non pare sia cosa ferma e nello stesso tempo danzante? Certo piena di rilievi e di modulazioni armoniose. (…)». (“Pavia col bel tempo”, in Cesare Angelini, “Viaggio in Pavia”, Fusi editore, Pavia, 1976)

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