Una panchina. Il mare. Poche voci lontane. La luna che si
specchia nelle acque, nere come la notte. “This is goodbye”. Sono passati anni,
eppure bastano quelle prime note accarezzate sul piano per strapparti via dalla
sedia. Il locale è semideserto, solo una coppia sussurra romantiche frasi
d’amore tre tavolini più in là. Già non li vedi più. Quelle note, quella
melodia, quella dissolvenza. Quella musica, questa musica: la canzone che
cercavi da anni. Non sei più a cena con un’amica, non stai più scegliendo cosa
ordinare.
Sei lontano, via, indietro nel tempo, risucchiato in una dimensione
parallela. Osservi un momento andato, lo rivivi, lo percepisci. Guarda il
braccio: è pelle d’oca. “This is goodbye”. Le note corrono morbide una dietro
l’altra, si tengono per mano mentre davanti agli occhi rivedi flash del
passato. Eccoti, su quella panchina, perso a guardare il mare. La luna ancora
sorride, forse oggi più di quella sera. La musica può stravolgere così una
normale serata, la musica sa aprire cassetti sigillati nella soffitta della
memoria, la musica fa tornare il sole nei corridoi bui dei ricordi. “This is
goodbye”.
Come puoi non sentire nostalgia?
Non vedi che la notte si strugge nella malinconia? Anche il cielo sembra accartocciarsi, o forse è solo il suo riflesso che si infrange sulla sabbia fine della spiaggia. Calma, respira. Il cuore, dopo l’accelerata improvvisa, ora torna al suo passo abituale. Anzi, sarà solo una sensazione, di sicuro lo è, ma sembra che ora batta più deciso, più misurato, più costante. Pare rasserenato. Come dopo un incontro che poteva strappare il cielo e invece lo ha scosso, spazzando via le nubi.
Per tutto
questo basta una canzone, basta riscoprire “Porcelain” di Moby, filtrata come colonna sonora di Lineablu, riuscendo finalmente a
darle un titolo e un autore. Ma, come direbbe Anna Oxa, “la musica è niente se
tu non hai vissuto”. In questi giorni, sulle pagine di IFamNews abbiamo fatto
un viaggio nel disagio giovanile, un viaggio tra solitudine e dipendenze,
grazie ai contributi preziosi di Claudio Risé e di Giovanni Serpelloni.
La ricordiamo l’adolescenza?
Ricordiamo cosa significa avere 18 anni? Noi, che i 18 li abbiamo dietro l’angolo, e chi li ha qualche isolato più in là. Ricordiamo il turbinio di sentimenti, le insicurezze, le paure, il senso di inadeguatezza, l’arroganza, la timidezza, il bullismo? Come direbbe Milva, “il turbinio dei sensi non si acquieta”, e anche i 30 in avvicinamento presentano ansie, responsabilità, sfide, ferite, slanci, cadute. Perché tutto questo maremoto rimane completamente escluso dal dibattito pubblico?
Escluso
dall’analisi dei fatti di cronaca che coinvolgono i giovani, escluso dai
dibattiti dei talk show, escluso dai testi delle canzoni, che ripiegano
su provocazioni rassicuranti e prevedibili? Spesso, escluso anche dalle omelie
e dagli incontri pensati apposta per i giovani, salvo rare eccezioni. Perché?
Forse si rischia di riattivare il maremoto anche in chi lo ha sepolto con anni
di impegno accomodante?
La resilienza
La resilienza non è disattivare i recettori delle emozioni, non è evitare i salti per paura delle cadute, non è cancellare il rischio in favore di un tempo indeterminato di prevedibilità. La resilienza è vivere la vita come la promessa di un amore, senza perdere la bussola. È anche essere sbalzati fuori dallo spazio-tempo da una semplice canzone, a patto di tornare coi piedi per terra, con un briciolo di consapevolezza in più.
La
resilienza è, come direbbe Antonella Ruggiero, “vivere e non sopravvivere”. Ma
per vivere, le emozioni bisogna provarle, i dubbi devono assillare la
coscienza, il cuore deve battere più forte quando ne vale la pena. Tutti ci
siamo trovati almeno una volta su una panchina a fissare il mare, senza sapere
che colore avrebbe avuto l’alba del nuovo mattino. Quando è stata la tua ultima
volta? “So this is goodbye”.
(image n. 1 by Bruno/Germany from Pixabay, image n. 2 by Tina Korsbæk Holm from Pixabay, image n. 3 by Oleksy @Ohurtsov from Pixabay)
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