Stavo guardando la Melevisione. Era un pomeriggio come tanti
altri, con le avventure del Fantabosco a fare da pausa tra un compito e
l’altro. Poi, all’improvviso, le immagini sono cambiate. Oggi non
riesco a ricordare nemmeno se ci sia stata la sigla dell’edizione
straordinaria, in quel caso del Tg3. Ricordo solo che all’improvviso comparvero
sullo schermo due grandi ciminiere. Sì, la mia testa, di fronte
all’inspiegabile, provò ad azzardare questa ipotesi. Una era accesa, una
spenta. Un documentario?
La verità la capii pochi istanti dopo, quando le telecamere inquadrarono la gente che fuggiva terrorizzata. Fuggiva da un orrore che superava qualsiasi immaginazione. L’America? New York? Passarono altri istanti ed ecco, un aereo di linea comparve. Cosa ci fa lì? Vira, vira, vira! E invece continuò il suo viaggio centrando la seconda torre. Ricordo la paura, ricordo la corsa verso il campanello dei vicini, le prime impressioni, la sensazione che il pericolo fosse vicino anche per noi, che eravamo dall’altra parte dell’oceano. Ricordo le preghiere a scuola il giorno dopo, ricordo i dibattiti che infiammarono l’opinione pubblica nei giorni successivi.
La verità la capii pochi istanti dopo, quando le telecamere inquadrarono la gente che fuggiva terrorizzata. Fuggiva da un orrore che superava qualsiasi immaginazione. L’America? New York? Passarono altri istanti ed ecco, un aereo di linea comparve. Cosa ci fa lì? Vira, vira, vira! E invece continuò il suo viaggio centrando la seconda torre. Ricordo la paura, ricordo la corsa verso il campanello dei vicini, le prime impressioni, la sensazione che il pericolo fosse vicino anche per noi, che eravamo dall’altra parte dell’oceano. Ricordo le preghiere a scuola il giorno dopo, ricordo i dibattiti che infiammarono l’opinione pubblica nei giorni successivi.
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Image by Gerd Altmann from Pixabay |
In modo particolare
il 29 settembre. Quando il 29 settembre del 2001 uscì in prima pagina a nove
colonne “La rabbia e l’orgoglio”, il Corsera andò esaurito in tutte le edicole
italiane già alle 10 del mattino. Il nome “Oriana Fallaci” faceva la
differenza. Perché? Perché Oriana era una “ostinata guastafeste al servizio dei
lettori”, come la ricorda Francesco Cevasco. Perché leggerla significa essere
sbattuti contro il muro, costretti a fare i conti con la verità. E questo deve
fare il giornalismo. Infastidirci, spaventarci, incoraggiarci, svegliarci.
Oggi tanti credono che il giornalismo non serva più, che le notizie si possano trovare cercandole su Google. Ciò che non serve oggi è un giornalismo asservito al potere. Un giornalismo rassicurante, ideologizzato, comodo, superficiale, grossolano, prevedibile o provocatoriamente aggressivo. Un giornalismo che insulta i suoi lettori, definendoli ignoranti e inutili, un giornalismo che seduce i suoi lettori, fingendo rispetto per nascondere meglio l’inganno.
Ma del giornalismo vero, capace di farsi sentinella di fronte al potere, qualsiasi potere, capace di vivere la storia, leggerne la verità tra le righe e raccontarla, ecco, di questo giornalismo abbiamo un disperato bisogno. Oggi che le decisioni non si prendono più solo nei vecchi palazzi del potere, servono voci oneste e coraggiose che ci dicano la verità.
Oggi tanti credono che il giornalismo non serva più, che le notizie si possano trovare cercandole su Google. Ciò che non serve oggi è un giornalismo asservito al potere. Un giornalismo rassicurante, ideologizzato, comodo, superficiale, grossolano, prevedibile o provocatoriamente aggressivo. Un giornalismo che insulta i suoi lettori, definendoli ignoranti e inutili, un giornalismo che seduce i suoi lettori, fingendo rispetto per nascondere meglio l’inganno.
Ma del giornalismo vero, capace di farsi sentinella di fronte al potere, qualsiasi potere, capace di vivere la storia, leggerne la verità tra le righe e raccontarla, ecco, di questo giornalismo abbiamo un disperato bisogno. Oggi che le decisioni non si prendono più solo nei vecchi palazzi del potere, servono voci oneste e coraggiose che ci dicano la verità.
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Image by Jesse Mills on Unsplash |