Mercoledì 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria, pietra d’inciampo nel calendario per risvegliare la coscienza intorpidita dalla quotidianità. Era proprio il 27 gennaio, del 1945, quando si aprirono per la prima volta i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, nei pressi di Oświęcim, in Polonia. L’orrore uscì fuori e percorse le strade del mondo come un grido silenzioso ma straziante. Non si poteva più fingere, non si poteva più voltare lo sguardo in un’altra direzione.
L’inferno era riuscito a rompere la crosta terrestre e aveva mostrato parte del proprio volto. Un volto violento, come i calci dei fucili sbattuti sui volti inermi dei prigionieri, e un volto cinico, come la banalità del male dei funzionari, dei lavoratori che hanno svolto i loro compiti ogni giorno, portando a fine mese a casa un pane che grondava sangue innocente.
Come fare per conoscere questa pagina di Storia? Come ricordare? Come raccontare l’Olocausto ai ragazzi che frequentano la scuola? Sono molte le iniziative dedicate, Radio 3 ad esempio trasforma il palinsesto della giornata per parlare della Shoah, ma esiste una possibilità speciale per pensare, partecipare, comprendere: "La variante di Luneburg", la struggente fabula in musica nata dall’omonimo romanzo di Paolo Maurensig e portata nei più importanti teatri italiani da Milva e Walter Mramor.
Lo spettacolo è la colonna sonora più adatta per questo giorno di amarezza e speranza, di ricordo e ferite da sanare, ed è ora possibile ascoltarlo quasi interamente su YouTube (si può anche ordinare il CD dello spettacolo, prodotto da a.ArtistiAssociati).
«Quale amore o compassione si può provare per un pezzo di scacchi sacrificato al gioco?», dice Frisch, uno dei personaggi principali dell’opera. Già, quale partecipazione, quale trasporto per le piccole pedine? Eppure, in un terribile scherzo del destino, a ogni pedina, a ogni pezzo della scacchiera, è legata la vita di un deportato. Inizia così una partita di morte per Tabori, mentre: «È tardi è tardi, ormai dobbiamo andare. Esuli siamo, esuli, e questa è la condanna: per quanto tu non voglia, il nostro è un congedo. Ascolta tua madre! Eva non piangere, è inutile sbracciarsi come fronda al vento... Esuli siamo, esuli, la nostra è una condanna».
Tutto concorre a portare lo spettatore, e l’ascoltatore, lì, «con gli occhi fissi sulla scacchiera». E intanto «nomi, nomi e ancora nomi» scivolano via veloci nell’oscurità, verso un male così grande da deformare il volto dell’uomo che se ne fa servo.
Un anno fa, sulle pagine del quotidiano online iFamNews, è stato lanciato l’appello: Abolire la frase «vite non degne di essere vissute». L’appello riparte oggi, mentre la pandemia rende tutti più fragili e soli, perché un grido silenzioso ma straziante non percorra mai più le strade del mondo. Perché la vita va difesa sempre, soprattutto quando è più fragile, anche quando è sporcata dal male. Perché la dittatura cerca sempre un pertugio dal quale tornare a inquinare la storia, ma non si presenta mai con la stessa maschera. Perché la verità va cercata ogni giorno, dietro le bugie dei potenti e oltre gli slogan rassicuranti del pensiero unico, nuovo volto della propaganda. Perché nessuno si salva da solo.
«E ancora la notte trattiene il respiro, in una prolungata apnea. Ma non per molto ancora, che già il sole del suo cappello di feltro leva la tesa nera».
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(Image by Albert Laurence from Unsplash)
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