“Tutte le norme dell’esistenza umana inculcate in ognuno
di noi ancor prima che cominciamo ad avere coscienza di noi stessi venivano
deliberatamente e scrupolosamente calpestate. (…) Una persona normale è
scioccata dalla brutalità e dalle menzogne? Allora ve ne forniranno in tale
quantità che dovrete chiamare a raccolta tutte le vostre forze interiori per
ricordare che esiste, esiste un’altra realtà! Esistono persone perbene, e sono
la maggioranza, esistono interi paesi nei quali il nero si chiama nero e il
bianco bianco, e ciò non viene perseguito per legge. Ma tutto questo vi
sembrerà così lontano che solo con un grande sforzo di volontà riuscirete a
conservare quella che era sempre stata la vostra normale scala di valori.”
Si è
spenta nel silenzio Irina Borisovna Ratushinskaya, dissidente sovietica,
poetessa e scrittrice. Si è spenta il 5 luglio 2017, a Mosca, ma solo oggi
vengo a sapere della sua morte, e ciò avviene per puro caso. Ho ripreso in mano
“Grigio è il colore della speranza”, la copia ormai un po’ ingiallita (è l’edizione
Rizzoli 1989) del libro che racconta i quattro anni di prigionia che Irina Ratushinskaya
ha dovuto scontare in un campo di lavoro.
Il 18 dicembre 1986, dopo essere
stata liberata grazie a una forte mobilitazione dell’opinione pubblica
internazionale, Irina aveva ottenuto il permesso di emigrare con il marito in
Gran Bretagna.
Uno sfoglio veloce, poi la ricerca su internet: avrà trovato
pace oggi Irina? New York
Times, The Guardian, Washington Post, The Economist, Telegraph, The Times, The
Boston Globe, The Australian Financial Review: tutti danno notizia della sua
morte. In Italia solo Tempi, con un articolo di Sandro Fusina, si
ricorda della “poetessa simbolo della malvagità sovietica”.
Dare notizia della
morte di Irina, avvenuta a soli 63 anni per un cancro, significa dare voce a
ciò che la sua vita ha rappresentato, ovvero un appello di umanità contro la
ferocia della dittatura sovietica. Contro l’orrore dei campi di lavoro, controle menzogne della dittatura, contro un’ideologia che convince l’uomo a odiare
se stesso, contro una violenza fisica e psicologica capace di piegare i
giganti.
Dalla Piccola Zona, il lager a 430 chilometri da Mosca dove Irina è
rinchiusa assieme ad altre dissidenti, si sprigiona una luce che nessun odio
umano può spegnere. È la luce della dignità umana, la luce di chi oppone alle
torture più spietate un cuore puro. Un cuore umano. Un cuore che sa riconoscere
la fratellanza nell’altro, distinguendo la maschera dell’ideologia dal volto
vero dell’uomo. Di Irina oggi rimane solo la poesia. Ma, se pochi versi
scarabocchiati su brandelli di carta igienica durante la prigionia hanno
salvato i prigionieri, allora la poesia di Irina oggi può salvare l’umanità.
“E nello
stesso tempo non dovrete mai, per nessuna ragione, permettervi di odiare! Non
perché i vostri aguzzini non se lo meritino. Ma perché se soltanto lascerete
penetrare l’odio dentro di voi, negli anni di lager si svilupperà talmente che
soppianterà qualsiasi altra cosa, vi corroderà e corromperà l’anima. Voi
cesserete di esistere, la vostra personalità verrà annientata, e in libertà
tornerà un essere isterico, furioso, indemoniato. E se doveste morire in una
delle tante camere di tortura, questo sarebbe l’essere che si presenterebbe al
cospetto di Dio. Ed è proprio ciò che loro vogliono. Perciò voi, guardando uno
dei tanti ingranaggi di questa macchina – che abbia le mostrine rosse o celesti
– cercherete di pensare che forse ha dei figli, che potrebbero crescere
completamente diversi da lui. Oppure troverete in lui qualcosa di ridicolo:
l’umorismo uccide l’ira. Oppure vi farà giustamente pena: adesso nessuno
potrebbe certo invidiarvi, ma scambiereste forse il vostro posto con il suo?
(…) Tutto ciò, già dopo il primo anno, vi procura il cosiddetto «sguardo
da prigioniero», che è impossibile descrivere, ma, una volta incontrato,
è anche impossibile dimenticare. (…) E neanche uno dei vostri aguzzini riesce a
sopportare questo sguardo: si girano tutti dall’altra parte come cani
bastonati.” (Irina Ratushinskaya, “Grigio è il colore della speranza”, trad.
it. a cura di L. Montagnani, Rizzoli, Milano 1989, p. 254)
La poesia di Irina e' veramente commovente, e tocca le corde più nascoste dei sentimenti che ognuno di noi ha nel suo intimo.
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