Il dolore è oggi
una parola Cenerentola che fugge dal dibattito pubblico, eppure le domande di
senso si fanno sempre più insistenti: perché l’uomo deve soffrire? Perché
esiste il dolore innocente? Cosa possiamo sperare in questa vita? Davanti al
binomio “dolore e speranza” si sono posti Alfonso Pedatzur Arbib, rabbino capo
della comunità ebraica di Milano, Rosanna Virgili, teologa, e Silvana Borutti,
filosofa, nell’aula magna dell’ateneo pavese che è rimasta colma di persone
fino a mezzanotte per la prima conferenza di “Mai troppo umano”. Il dibattito è
stato moderato da Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera.
«Il dolore – ha
introdotto il vescovo di Pavia Corrado Sanguineti – è un fattore scandaloso,
che suscita domande e contestazioni anche contro Dio. Da qui vuole partire il
comitato “Mai troppo umano”, per coinvolgere tutti gli uomini amanti del vero,
credenti e non, per un sano confronto tra le visioni del mondo. In
un’intervista al Corriere Umberto Galimberti pensando ai giovani ha parlato di
angoscia del nichilismo, di assenza di futuro. Eppure in questa angoscia
permane una promessa di bene, permane la domanda: cosa possiamo sperare?». Concentrarsi
sulla propria sofferenza è uno dei problemi più grandi della sofferenza: «Non vedere oltre la
propria sofferenza e concentrarsi solo sul proprio dolore è tradire se stessi –
ha spiegato il rabbino Alfonso Arbib –. Pensiamo al capitolo 28 del libro di
Giobbe: qui, dopo il racconto del mondo che è franato addosso a quest’uomo
giusto, a quest’uomo di fede, c’è la perdita totale della speranza. L’uomo è
consapevole della sofferenza, ed è consapevole che non troverà mai risposte
alla sofferenza. L’intelligenza e la sapienza umana si fermano davanti al
mistero. Eppure improvvisamente Dio interviene, ed offre a Giobbe un quadro più
ampio, gli consente di ridimensionare il suo dolore. E, soprattutto, dopo notti
di dolore e domande, Dio si fa sentire. Uno dei motivi della speranza è essere
in relazione, perché una malattia condivisa è una sofferenza che può aprirsi
alla speranza».
Si passa dal dolore alla speranza quando qualcuno si china verso il
sofferente: «Il dolore è più forte degli eserciti e della spada perché diventa un
grido – ha detto Rosanna Virgili –, come il grido di Gesù sulla croce che
querela Dio. La domanda sul dolore è sacra, il cristiano non può scandalizzarsi
se l’umano non sopporta il dolore, deve invece farsi partecipe del mistero. Agar
nel deserto grida, anche se sa che forse nessuno potrà sentirla, lei grida
perché non vuole vedere suo figlio morire. La Terra grida di fronte
all’assassinio di Abele. La potenza della debolezza di un grido del deserto ottiene
la risposta anche dal Cielo, infatti un angelo scende e chiede ad Agar “perché
gridi?”».
Il dolore non può essere disgiunto dalla relazione, in modo particolare dalla
relazione di cura: «Il grido istintuale diventa parola pubblica, perché il dolore umano
desidera essere comunicato – ha spiegato Silvana Borutti –. Il grido di Agar el
deserto diventa voce significante, come noi diventiamo umani nel momento in cui
rispondiamo all’appello etico dell’altro. Wittgenstein parla della cura come
della risposta all’appello di un altro essere umano che soffre, nella cura c’è
memoria del passato e progettazione del futuro, come nell’alleanza terapeutica
medico-paziente e nel rapporto madre-figlio. Non si può attribuire senso al
passato senza speranza nel futuro».
Tante le domande del pubblico, a prendere
la parola anche Stefano Perlini, responsabile del Pronto Soccorso del San
Matteo: «Pochi giorni fa la città è stata scossa dalla notizia di un giovane
studente in fin di vita per aver tentato il suicidio, cosa possiamo fare noi
come docenti e medici, come persone, di fronte a questo dolore interiore?». Alla «domanda troppo
grande»
ha risposto la filosofa Silvana Borutti: «Gesù sulla croce grida “Padre, perché mi hai
abbandonato?”, ma c’è anche la versione pagana di questo grido, è quella di
Edipo che grida “Non fossi mai nato”. Noi come docenti, come adulti, come
umani, abbiamo il compito di fissare lo sguardo dei nostri studenti e di
leggere nei loro occhi il “Non fossi mai nato” di Edipo. Il vescovo e
Galimberti hanno parlato di nichilismo: il nichilismo non è solo assenza della
speranza, è assenza delle ragioni della speranza. Leggere la sofferenza
dell’altro apre alla speranza».
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