Conferenze stampa e annunci di un futuro pieno di
soddisfazioni. Succede questo in Ucraina attorno a Vitaly Markiv, condannato in
primo grado (il 12 luglio del 2019) a 24 anni di reclusione per la morte del
fotoreporter Andy Rocchelli, e assolto in secondo grado (il 3 novembre del
2020) per non aver commesso il fatto, secondo l’articolo 530 comma 2 del codice
di procedura penale.
È necessario attendere le motivazioni della sentenza, che
saranno depositate entro 90 giorni, ma intanto cosa succede? La mobilitazione
ucraina non si è mai fermata, mentre in Italia tutto tace.
Il 3 novembre in
aula a Milano era presente ancora una volta il Ministro dell’Interno ucraino
Arsen Avakov, che aveva seguito di persona la sentenza di primo grado e quasi
tutte le udienze di secondo grado. Fuori dal Tribunale foto con Markiv e con i
sostenitori presenti, subito rilanciate sul profilo Twitter del Ministro:
«Felici! Gloria all'Ucraina!», il primo commento. Poi, la mattina successiva,
la foto di Markiv che in uniforme stringe il pugno in segno di vittoria accanto
al Ministro, su un jet privato diretto a Kiev.
Poche ore dopo un video, Markiv
si fa un selfie in piazza Santa Sofia a Kiev, davanti a uno striscione così
grande da coprire l’intera faccia di un palazzo: #FreeMarkiv si legge. E ancora
il ministro twitta: «L’avevamo promesso alla mamma». L’arrivo all'aeroporto di
Kiev è stato ripreso da diverse testate nazionali, con il soldato Markiv che
appena sceso dall'aereo sventola la bandiera ucraina, riceve un grande mazzo
di fiori, e tiene una conferenza stampa.
Intanto su Twitter Volodymyr
Zelens'kyj, Presidente dell’Ucraina, scriveva: «Accolgo con favore la decisione
del tribunale italiano di assolvere la guardia nazionale ucraina Vitaliy
Markiv. La sua liberazione è una vittoria della giustizia! #FreeMarkiv
l'hashtag può essere lasciato per la storia. Grato a tutta la squadra che ha
lavorato per questa vittoria!», taggando i profili ufficiali del premier
Giuseppe Conte e del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Una
mobilitazione imponente, che il Ministro Avakov aveva confermato fuori dal
Tribunale anche a Ossigeno per l’informazione: «L’Ucraina non abbandona i suoi
soldati». Una mobilitazione comprensibile, ma in Italia?
Il basso profilo
scelto dalla famiglia Rocchelli, che ha seguito tutte le udienze portando sulle proprie spalle un dolore profondo e silenzioso, percepibile solo negli sguardi e nelle parole (poche e sempre misurate), non spiega la poca attenzione riservata al
processo da parte delle più importanti testate, in modo particolare al secondo
grado. Non per cercare un colpevole ad ogni costo: chiunque abbia parlato con i
genitori di Andy sa che a loro non interessa questo. Ma per tenere i riflettori
accesi su una storia che non può diventare un numero. L’UNESCO stima che negli
ultimi quindici anni oltre 1200 giornalisti siano rimasti uccisi mentre facevano
il loro lavoro, e in 9 casi su 10 i responsabili non sono stati accertati né
puniti.
Il nome di Andy è stato proiettato sulla facciata della sede Rai di
viale Mazzini a Roma, assieme ai nomi di altri 80 colleghi uccisi, proprio per
tenere viva nella memoria dell’opinione pubblica una realtà fotografata dalla
sentenza di primo grado: i giornalisti sono come gli operatori umanitari. I
giornalisti si muovono nei territori di guerra per consentire al resto del
mondo di conoscere, comprendere, ricordare. Nei luoghi più sperduti e
pericolosi del mondo, nelle periferie delle grandi città o nei palazzi
del potere, i giornalisti sono presenti per raccontare al mondo cosa accade.
Perché solo così l’opinione pubblica può sapere, può decidere, può essere
libera di scegliere.
Eppure, a parte un tweet del presidente della Camera
Roberto Fico a inizio processo, le istituzioni italiane hanno taciuto. E
tacciono ora. Silenzio per evitare pressioni politiche? No. Il sostituto
procuratore generale lo ha ricordato in aula il 3 novembre, poco prima della
sentenza: «Non si fa politica, non si prende posizione per lo stato ucraino o
per i separatisti, ma si esamina soltanto un reato e la sua responsabilità».
Alla storia di Andy non servono pressioni fotocopia di quelle portate avanti
dallo Stato ucraino in questa lunga vicenda processuale. Ma serve oggi uno
sforzo comune affinché la storia di Andy non venga dimenticata. A Pavia, la sua
città natale, tutti i jersey di cemento antiterrorismo posati in centro sono stati
dipinti dai ragazzi delle scuole superiori con le sue immagini e le sue parole.
Oggi chiunque passeggi per la città non può fare a meno di vederli, di
riconoscervi l’orrore della guerra e la speranza della pace.
In attesa delle
motivazioni della sentenza occorre ricordarlo: non c’è speranza di pace se i
conflitti e le ingiustizie non vengono scoperti, compresi e raccontati da
qualche giornalista. Se tra gli ingranaggi degli interessi più potenti non
s’infila una penna, un taccuino o una macchina fotografica, che rompe il
meccanismo della violenza. Oggi c’è un silenzio da rompere. Tocca all'Italia
fare il primo passo.
Nessun commento:
Posta un commento
E tu, cosa ne pensi?