Sono ancora lì, nel grande scatolone colorato, chiuse da
anni eppure ancora pronte a rombare fuori. Grandi, piccole, medie. Da
collezione o da poco più di mille lire. Perfette riproduzioni in scala di
modelli esistenti o strani prototipi futuristici. Sono le macchinine! Quanti
pomeriggi abbiamo passato a giocarci? A volte con i compagni di classe, a volte
sequestrando i nonni e costringendoli a rispettare le (nostre) infinite regole
del gioco.
Perché, osservando la scena dall’esterno, magari dalla porta della cameretta, un adulto poteva vedere un bambino seduto a terra davanti al suo letto, intento a spingere una o più macchinine. In realtà il bambino non era davanti al letto, ma dentro a una metropoli fatta di grattacieli, strade trafficate, pedoni, fantasmagorici uffici dove andare a fare fantastici lavori. E ogni modello di macchinina aveva la sua perfetta collocazione.
Per attraversare la nostra città immaginaria, per esempio, le automobiline ideali erano quelle piccole, magari dotate di ammortizzatori, così da rendere più realistiche le frenate e le ripartenze ai semafori, e di portiere apribili, perché bisognava pur scendere per fare le commissioni. Il massimo era unire le macchinine ai tappeti con disegnate strade, aiuole, case, supermercati e sensi unici.
Perché, osservando la scena dall’esterno, magari dalla porta della cameretta, un adulto poteva vedere un bambino seduto a terra davanti al suo letto, intento a spingere una o più macchinine. In realtà il bambino non era davanti al letto, ma dentro a una metropoli fatta di grattacieli, strade trafficate, pedoni, fantasmagorici uffici dove andare a fare fantastici lavori. E ogni modello di macchinina aveva la sua perfetta collocazione.
Per attraversare la nostra città immaginaria, per esempio, le automobiline ideali erano quelle piccole, magari dotate di ammortizzatori, così da rendere più realistiche le frenate e le ripartenze ai semafori, e di portiere apribili, perché bisognava pur scendere per fare le commissioni. Il massimo era unire le macchinine ai tappeti con disegnate strade, aiuole, case, supermercati e sensi unici.
Per fare le gare di velocità meglio i modelli con carica a molla, da tirare
indietro fino a sentir quasi scricchiolare il meccanismo. Il senso del limite
si imparava anche così: se tiri troppo la macchinina non va più veloce, si
rompe. Poi c’erano quelle grandi, magari radiocomandate. Ricordo la mia Porsche
911 gialla fiammante: quante corse in giro per casa, sotto i letti, tra le
gambe del tavolo. Nella vetrina del negozio di modellismo per eccellenza di
Pavia, “Il Treno”, avevo visto un altro modellino radiocomandato: una Mercedes
R170. In più, rispetto alla mia 911, aveva le portiere apribili, i fanali che
si accendevano, il clacson, la retromarcia. E un prezzo da capogiro (superava
le 200mila lire). Rimase infatti in quella vetrina.
Oggi tornare al volante di una macchinina porta con sé un po’ di nostalgia: siamo ancora capaci di attivare la fantasia? Quanta spensieratezza abbiamo perso? Abbiamo almeno provato a realizzare quei sogni che ci facevano brillare gli occhi? Restare bambini è sciocco, cancellare il bambino che è (stato) in noi è dannoso. In tempi di bilanci, spolveriamo la coscienza: se abbiamo perso l’egocentrismo tipico del bambino piccolo, che misura la realtà solo in base alle sue sensazioni, ma abbiamo conservato la sua meraviglia davanti al mondo, siamo su un’ottima strada. Altrimenti niente panico: basta mettere la freccia, rallentare, accostare e fare il punto della situazione sulla cartina (vietato l’uso di Google Maps). Non è mai troppo tardi per ritrovare la strada.
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