«L’indomani ero partita per il Vietnam. C’era la guerra in
Vietnam e se uno faceva il giornalista finiva prima o poi per andarci. Perché
ce lo mandavano, o perché lo chiedeva. Io l’avevo chiesto. Per dare a me stessa
la risposta che non sapevo dare a Elisabetta, la vita cos’è, per ricercare i
giorni in cui avevo troppo presto imparato che i morti non rinascono a
primavera.
Ed ora mi trovavo a Saigon e i miei occhi vagavan sorpresi senza
vedere la guerra: dov’era la guerra? Nell’aeroporto di Than Son Nhut i caccia a
reazione, gli elicotteri con le mitraglie pesanti, i rimorchi con le bombe al
napalm si allineavano insieme ai soldati dall’aria triste. Ma questa non era
ancora la guerra. Lungo la strada che porta in città si ammucchiavano
sbarramenti di filo spinato, fortificazioni coi sacchi di sabbia, torrette da
cui i soldati puntavan fucili. Ma questa non era ancora la guerra. In città
passavano jeep coi militari armati, camion coi cannoncini spianati, convogli
con le cassette di munizioni. Ma questa non era ancora la guerra.
Cosa c’entra
la guerra coi risciò che si tuffan leggeri, a pedalate, nel traffico, le
venditrici di acqua che corrono a piccoli passi bilanciando la merce sui piatti
a stadera sospesi a una canna di bambù, le minuscole donne dai lunghi vestiti e
i capelli sciolti che dondolan dietro le spalle come veli neri, le biciclette,
le motociclette, i bambini con le scatole di cera e le spazzole per pulirti le
scarpe, i taxi luridi e svelti.
C’era un caos quasi allegro a Saigon nel
novembre del 1967, ricordi? Tu giungevi a Saigon, nel novembre del 1967,
ricordi, e non ti accorgevi molto della guerra. Essa sembrava semmai un
dopoguerra: coi negozi pieni di cibo, le gioiellerie piene d’oro, i ristoranti
aperti, ed il sole. Entravi in albergo e funzionava perfin l’ascensore, il
telefono, il ventilatore a soffitto, e il cameriere vietnamita era sempre
pronto a un tuo cenno e sul tavolo c’era sempre un vassoio di ananas freschi e
di mango, e non pensavi a morire.
Poi, all’improvviso, era notte, la guerra mi
lacerò gli orecchi. Con un colpo di cannone. E poi un altro, ed un altro. Le
mura tremarono sotto le scosse, i vetri tintinnarono fin quasi a spaccarsi, la
lampada in mezzo alla stanza paurosamente oscillò. Corsi alla finestra, il
cielo all’orizzonte era rosso, e riconobbi la guerra in cui avevo troppo presto
imparato che non si rinasce a primavera». (da “Niente e così sia”, Oriana
Fallaci, Rizzoli, Milano 1969, p.8)
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