«Nei regimi assolutisti o dittatoriali, spiega Tocqueville,
il dispotismo colpisce grossolanamente il corpo. Lo incatena, lo sevizia, lo
sopprime con gli arresti e le torture, le prigioni e le Inquisizioni. Con le
decapitazioni, le impiccagioni, le fucilazioni, le lapidazioni. E così facendo
ignora l’anima che intatta può levarsi sulle carni martoriate, trasformare la
vittima in eroe. Nei regimi inertemente democratici, al contrario, il
dispotismo ignora il corpo e si accanisce sull’anima. Perché è l’anima che
vuole incatenare, seviziare, sopprimere. Alla vittima, infatti, non dice: “O la
pensi come me o muori”. Dice: “Scegli. Sei libero di non pensare o di pensarla
come me. E se la penserai in maniera diversa da me, io non ti punirò con gli
autodafé. Il tuo corpo non lo toccherò, i tuoi beni non li confischerò, i tuoi
diritti politici non li lederò. Potrai addirittura votare. Ma non potrai essere
votato perché io sosterrò che sei un essere impuro, un pazzo o un delinquente.
Ti condannerò alla morte civile, ti renderò un fuorilegge, e la gente non ti
ascolterà. Anzi, per non essere a loro volta puniti coloro che la pensano come
te ti abbandoneranno”.
Poi aggiunge che nelle democrazie inanimate, nei regimi
inertemente democratici, tutto si può dire fuorché la verità. Tutto si può
esprimere, tutto si può diffondere, fuorché il pensiero che denuncia la verità.
Perché la verità mette con le spalle al muro. Fa paura. I più cedono alla paura
e, per paura, intorno al pensiero che denuncia la verità tracciano un cerchio
invalicabile. Un’invisibile ma insormontabile barriera all’interno della quale
si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se lo scrittore scavalca quel cerchio,
supera quella barriera, il castigo scatta alla velocità della luce. Peggio: a
farlo scattare sono proprio coloro che in segreto la pensano come lui ma che
per prudenza si guardano bene dal contestare chi lo anatemizza e lo scomunica.
Infatti per un po’ tergiversano, danno un colpo al cerchio ed uno alla botte. Poi
tacciono e terrorizzati dal rischio che anche quell’ambiguità comporta
s’allontanano in punta di piedi, abbandonano il reo alla sua sorte. (…)
C’è il
declino dell’intelligenza. Quella individuale e quella collettiva. Quella
inconscia che guida l’istinto di sopravvivenza e quella conscia che guida la
facoltà di capire, apprendere, giudicare, e quindi distinguere il Bene dal
Male. Eh, sì. Paradossalmente siamo meno intelligenti di quanto lo fossimo
quando non sapevamo volare, andare su Marte, cercarvi l’acqua. O riattaccarci
un braccio, cambiarci il cuore, clonare una pecora o noi stessi. Siamo meno
lucidi, meno svegli, di quando non avevamo quel che serve o dovrebbe servire a
coltivare l’intelligenza. Cioè la scuola accessibile a tutti anzi obbligatoria,
l’abbondanza e l’immediatezza delle informazioni, l’Internet, la tecnologia che
rende la vita più facile. E il benessere che toglie l’assillo della fame, del
freddo, del domani, che placa l’invidia. Quando questo bendidio non esisteva,
bisognava risolvere tutto da soli. Quindi sforzarci a ragionare, pensare con la
propria testa. Oggi no. Perché anche nelle piccole cose quotidiane la società
fornisce soluzioni già pronte. Decisioni già prese. Pensieri già elaborati
confezionati pronti all’uso come cibo già cotto.
“We are thinking for you. So you don’t have to.
Stiamo pensando per te. Così tu non devi farlo” dice l’agghiacciante
scritta che ogni tanto lampeggia in un angolo dello schermo quando alla Tv
scelgo il canale “Science and Science-Fiction”. Più o meno ciò che fanno i
dannati computer (io li detesto) quando correggon gli errori e addirittura
forniscono suggerimenti, così esentandoti dal dovere di conoscere la Consecutio
Temporum e l’ortografia, nonché sgravandoti da ogni senso di responsabilità e
portandoti all’ottusità. Ergo, la gente non pensa più». (da “Il coraggio che ci
serve. La forza della ragione”, Oriana Fallaci, Bur Rizzoli, Milano 2016, pp.
377-383)
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