«Come animali fummo radunati e spinti e tenuti al passo con il bastone, e infine stipati su un carro bestiame. E i portelloni si richiusero, lasciandoci al buio, senz’aria né cibo né acqua. Per il tempo di un interminabile viaggio».
Apparentemente è una notte come tante, la città è coperta da una cupola d’ira ormai quasi familiare, ma nel buio s’odono rumori che ti svegliano: qualcuno bisbiglia, qualcuno implora pietà, gli stivali dei soldati calpestano ogni speranza di salvezza. Sbircia dalla tua finestra, senza farti notare, cosa vedi?
Con loro scambi due chiacchiere mentre stendi i panni al sole, a loro racconti le nuove ricette sperimentate, con loro discuti perché vorrebbero cambiare il colore delle tende da sole e il regolamento del condominio proprio no, questo non lo può prevedere. La luce rimane accesa, la porta spalancata, la casa deserta. In lontananza s’ode il fischio di un treno.
Un grido ti muore in gola. Dove li stanno portando? Non lo sai, non puoi saperlo, nessuno te lo dice. Forse sarà una vacanza un po’ imposta, forse li portano in un altro Paese, forse è solo un brutto sogno. Eppure tu lo sai, tu lo sai che le rotaie portano proprio là, dove l’inferno è riuscito a rompere la crosta terrestre per aprire una strada fin sulla terra.
Tu lo sai che da là nessuno è mai tornato, non il fornaio, dove sceglievi il pane più buono, non il maestro che insegnava ad amare i libri, non il giornalista che cercava la verità, non il gioielliere dove hai comprato l’anello più importante, nemmeno il parroco, che i vicini pericolosi li nascondeva in canonica.
«Treno che corri nella notte, quante anime trasporti in petto? Caronte di ferro, conosco la fine della strada, conosco il fondo della via. La tua lanterna cieca fora la caligine della notte, la tua lanterna non è quella dei bimbi, che proietta ombre sul muro, quelle che trasporti sono già ombre di morte».
Non è più un grido, sono lacrime silenziose quelle che ora scendono sulle tue guance, perché tu conosci il fondo della via, tu hai intravisto quei documenti maledetti nell’ufficio del Ministero, dove lavori. Tu sai che dietro a quei numeri gelidi ci sono nomi, nomi e ancora nomi. Tu sai, che se ora lasci la finestra e scendi in strada non fermerai quel treno, forse ne sarai travolto. E se non sarai travolto, se sopravvivrai, perderai il lavoro, la tua brillante carriera, le persone a te care.
Ecco, i tuoi cari, cosa succederà loro? Qualcuno ti dimenticherà, perché la paura a volte è più forte della solidarietà, qualcuno si metterà al tuo fianco, perché il coraggio della verità viene dalle tue radici.
Tutto si romperà, per sempre. Perché questo falso equilibrio si poggia sulla morte, dunque non può durare, ma intanto consente alle maschere di muoversi come pedine. Il cuore batte così forte nel tuo petto che ora lo sentiamo anche noi. Tu lo sai ormai che niente sarà più come prima, tu lo sai che questo silenzio non lo puoi più sopportare. Tu speri che il tuo sacrificio non sarà vano. E noi?
«Treno, che muovi le tue ruote con clave di ferro, treno, che con il tuo urlo copri ogni pianto, treno, che strangoli la notte con le tue catene di ferro, dove sono i volti dell’amore? Dove sono le risa e i sussurri nella penombra d’estate?».
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(Le citazioni sono tratte da “La variante di Luneburg”, fabula in musica con Milva e Walter Mramor)
(Image n. 1 by Jean Carlo Emer from Unsplash, image n. 2 by Mateus Campos Felipe from Unsplash)
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