Si è concluso un Festival di Sanremo caratterizzato da ascolti record:
era dal 2005 che la seconda serata del Festival non raggiungeva una media di
oltre undici milioni di telespettatori, con uno share da finale dei Mondiali.
Nella mia mente un po’ maliziosa si è creato un fotomontaggio, una
sovrapposizione di immagini fra la marea umana presente al Circo Massimo il 30
gennaio, ed il tripudio di arcobaleni del palco dell’Ariston.
Una piazza, che non è solo una piazza ma un popolo, che
scandisce un messaggio tanto semplice quanto chiaro: i diritti dei bambini
vengono prima dei desideri degli adulti. Ed il primo diritto fondamentale di un
bambino è quello di avere una mamma e un papà che lo amino e lo accompagnino
nella crescita (sì, oggi è necessario scendere in piazza per affermare questo).
Una piazza che raccoglie colori, religioni, età, storie e convinzioni politiche differenti, che nonostante la malafede di parte dell’informazione riesce a sfuggire ad etichette e bugie.
Ma anche una piazza che, nonostante i numeri impressionanti dei partecipanti, nonostante le adesioni da ogni parte dell’Europa, nonostante la diretta televisiva di Tv2000, viene ancora oggi mistificata e sottovalutata nella portata del suo messaggio.
Una piazza che raccoglie colori, religioni, età, storie e convinzioni politiche differenti, che nonostante la malafede di parte dell’informazione riesce a sfuggire ad etichette e bugie.
Ma anche una piazza che, nonostante i numeri impressionanti dei partecipanti, nonostante le adesioni da ogni parte dell’Europa, nonostante la diretta televisiva di Tv2000, viene ancora oggi mistificata e sottovalutata nella portata del suo messaggio.
Una piazza ed un palco. Un palco che dovrebbe essere (lo
si dice tutti gli anni, perdonatemi la retorica) lo specchio del Paese, che
dovrebbe raccontare la realtà storica e fattuale degli italiani, magari
edulcorandola con la migliore tradizione popolare della nostra musica. Eppure
quest’anno è apparso più che mai insanabile lo iato fra il Paese reale e il
palazzo del potere, che in questo caso, e non a caso, è un teatro. Dimenticavo,
oltre che malizioso sono anche complottista. Eppure non serve molta
immaginazione per vedere le trame e le pressioni di poteri nascosti che
condizionano - senza trovare alcuna resistenza - i nostri abituali palazzi del
potere e i nostri mass media.
E così, con un sorriso e una canzonetta, spazio alla
sponsorizzazione del pensiero unico. Unico lampo di colore vero? Il maestro
Ezio Bosso. In un’Europa che sembra sorridere ad un ritorno dell’eugenetica, il
suo intervento ci ha ricordato che l’uomo ha dignità in quanto persona, e
questa sua dignità è connaturata al suo più profondo essere, e non è in
relazione alla sua fantomatica produttività ed efficienza (sì, oggi è
necessario scendere in piazza per affermare anche questo). Il resto? Una sfavillante
scala di grigi.
(“Dirige l’orchestra… Il pensiero unico”, Giacomo Bertoni,
articolo pubblicato su “il Ticino” di venerdì 19 febbraio 2016, anno 125, n.
07, pag. 13)
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